Da neolaureato in psicologia clinica, sono rimasto immobile quando sono venuto a conoscenza del fatto che il governo non avesse introdotto nella manovra economica il bonus psicologico.

Ricordo che dentro di me ho sentito una sorta di energia spingersi in avanti per poi retrarsi affranta, come a dire “ma veramente, ancora, il malessere psicologico delle persone passa in secondo piano?”.

Senza stare a eviscerare le questioni economicamente più tecniche, dove emergono comunque le criticità dell’introduzione di questo bonus (isee, sostenibilità, ecc), credo che ci siano cose che vadano ben oltre le “leggi”: i simboli e i significati.

Ricordo ancora con molta lucidità una lezione di filosofia in cui si trattava Nietzsche. A un certo punto si andò a parlare delle scelte dell’università e di quello che uno avrebbe voluto fare dopo l’esame di maturità. E un mio professore pose questa domanda: “scusatemi ragazzi, ma Perché volete fare quella data cosa. Perché?”. Quel Perchè, mi pose di fronte ad una realtà che fino ad allora non avevo mai attraversato: quella del senso oltre le cose.

Cosa c’entra questo con la bocciatura del bonus? Che il suo significato, a mio parere, non è solo quello di aiutare persone in difficoltà economiche (sarà sempre difficile mettere d’accordo tutti su questo punto), ma soprattutto di avvicinare le persone alla possibilità di dire “sto soffrendo psicologicamente e posso farmi aiutare anche grazie a questa opportunità”.

Di dire che la realtà è scadente (si capirà più avanti il senso di questa frase).

Ci vuole coraggio per raccontare qualcosa di sé stessi.

Recentemente ho visto il film “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino e letto il libro “Ragioni per continuare a vivere di Matt Haig”.

Li voglio pubblicamente ringraziare non solo per la bellezza degli artefatti che hanno prodotto, ma soprattutto per l’audacia con cui hanno permesso alle persone di entrare negli aspetti più intimi della loro vita: di conoscerne sia l’amore che il dolore.

Matt Haig ha sofferto di depressione e attacchi di panico per gran parte della sua vita.

Paolo Sorrentino è rimasto senza genitori a sedici anni e riconosce che trae dalla malinconia la sua ispirazione.

Nel film e nel libro emerge che non è bello “stare così”. Non è piacevole trovarsi a letto per giorni senza motivi per cui vivere o sentirsi “abbandonati” nell’età in cui fioriscono i sogni e le ambizioni.

Entrambi aprono le porte a quel mondo che tutti noi abbiamo, tutti: la sofferenza.

Questa non è mai solo “fisica” o “psicologica”, è sofferenza. Eppure, è scotomizzata: se si hai il mal di pancia al ristorante e non si ha fame tutti sono d’accordo sul fatto che non ci sia nulla di male; se si ha un attacco di panico e si necessita di andare in bagno dal nulla, ritornare al tavolo davanti ai commensali non sarà la stessa cosa.

Eppure, in entrambi i casi si sta soffrendo di e per “qualcosa”, anche se non si aiutano le persone nello stesso modo, nello stesso “equo” modo.

Quante volte si è andati dal medico di base per un mal di gola o dolori addominali prolungati, che poi si sono rivelati essere infezioni necessitanti di cure appropriate?

Perché lo stesso non può avvenire con l’ansia, la depressione, le fobie, le ossessioni o il sentirsi “in panne” di fronte alla vita?

Se fosse solo una questione economica perché coloro con l’isee più alto convivono ancora con questi problemi e non vanno dallo psicologo?

Uno dei messaggi Sorrentino enuncia nel film è che “la realtà è scadente”.

Ciò non vuol dire che è “brutta”, a mio parere, ma che è così per tutti.

Si prova angoscia e panico. La realtà è scadente.

Si piange dal nulla. La realtà è scadente.

Si pensa ininterrottamente a quella situazione. La realtà è scadente.

Quello che può sembrare apparentemente un messaggio da parte di Sorrentino “negativo” o “malinconico”, credo sia un inno a una vita consapevole; un movimento interiore che porta l’essere umano a cercare soluzioni per guardare e vivere oltre la realtà così come si presenta.

Prendere atto di questa condizione, che è umana, vuol dire forse arrivare a capire che bisogna avere “il coraggio di raccontare qualcosa”, di come direbbe Antonio Capuano “tenere qualcosa da dire”.

E cosa c’è di più umano che ammettere l’esigenza di prendersi cura della sofferenza psicologica delle persone? Soprattutto oggi, che più che mai si è esposti alla paura, all’insicurezza e alla malattia.

Questa, a mio avviso, è la realtà scadente. Coloro che credono che il bonus psicologico non sia necessario guardano al passato, ma come direbbe la baronessa del film di Sorrentino: “ora è arrivato il momento di pensare al futuro”.

Ringrazio coloro che hanno il coraggio di raccontare qualcosa di sé, perché con le loro parole donano quel conforto che serve per rimanere a galla quando si crede di “essere soli”, anche se in fondo si sa che mai lo saremo per davvero.

11 January 2022
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L'autore

Matteo Cosignani

  Commenti: 2


  1. Grazie, una riflessione che smuove molto, almeno in me. Ci rifletto anche io su queste tematiche e sono “solo” una paziente, questo per specificare che non mi occupo per lavoro o studio di salute mentale. Trovo sempre di arricchimento ascoltare voci di altre persone in merito a questioni così importanti. Anche io sono rimasta molto toccata dalla scelta che è stata fatta sul bonus e la cosa mi suscita rabbia e tristezza. La salute mentale ancora viene trattata come qualcosa di non importante quando in realtà lo è tantissimo. Non è manco, tanto, una questione di opinioni, secondo me, quanto di consapevolezza. Come società stiamo indietro. Non vengono riconosciuti importanti bisogni. Io sogno una rivoluzione nel mondo della salute mentale che: 1, normalizzi e destigmatizzi quest’ultima e le varie sofferenze annesse; 2, che dia la possibilità a tutti, anche persone con scarse o nulle possibilità economiche, di accedere a servizi almeno sufficienti per prendersi cura di questo aspetto così importante della salute. Non è “colpa” dei privati se le cure sono, attualmente, spesso, inaccessibili a molte persone. So benissimo che ci sono molte motivazioni validissime se le tariffe di un privato sono quelle che sono. Sono le istituzioni che dovrebbero investire sul mettere in risalto, culturalmente ed economicamente, la salute mentale e renderla un diritto fondamentale di ogni individuo. Io non voglio sparare su nessuno, ma ne potrei raccontare tante di storie in cui persone di mia conoscenza (e me stessa compresa) si sono trovate davanti a servizi pubblici, legati alla salute mentale, completamente al collasso, già prima della pandemia. E, anche lì, mica è responsabilità di chi lì dentro ci lavora se non c’è abbastanza spazio per le richieste di cura. Nel privato nascono progetti, si possono fare più o meno cose, è soggettivo. Credo siano importanti un sacco di iniziative che sorgono, anche “semplicemente” di divulgazione. Però non può essere tutta sul privato la responsabilità di cambiare le cose. È triste. Chissà come si farà, quando si farà e se si farà un bel cambiamento.
    Grazie ancora. Mi scuso per essere stata, forse, prolossa, io non ho proprio il dono della sintesi e questo argomento mi sta particolarmente a cuore. Grazie ancora.


  2. Comlimenti ragazzo!!!! Ci vuole coraggio

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